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Ciao Ragazzi!
Here’s another BONUS episode. Today is Labour Day in most countries all over the world. It’s a great excuse to chill out, BBQ, enjoy our spare time. But it’s also an opportunity to speak about jobs and the world of work. Most of the time, people speak negatively about it, especially in Italy.
However, we want to celebrate it. We’ll do it with a poignant story from Primo Levi’s novel “La chiave a stella” (The Monkey’s Wrench).



Download the full transcript (PDF) or read it here


Ciao ragazzi
E benvenuti come sempre su Learn Italian with Davide, il podcast che vi parla di cultura e lingua italiana a 360 gradi.
Prima di iniziare vi ricordo
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Allora, un’altra puntata BONUS.
Oggi è il primo maggio, Labour Day, May Day. In Italia di solito è una buona occasione per parlare di lavoro, dei problemi del mondo del lavoro. Ma è anche un’occasione per rilassarsi, andare a concerti o festival, incontrarsi con gli amici.
Ho pensato che oggi sarebbe interessante parlare di lavoro. Ma non per parlare di tutti i problemi che ci sono, della disoccupazione, della mancanza di posti di lavoro dopo la crisi, durante la pandemia. Spesso in Italia, si parla male del lavoro, soprattutto il primo maggio, e soprattutto si parla solo del lavoro in fabbrica. Ma penso che ci sia anche un lato positivo del lavoro che dobbiamo celebrare.

Oggi vi racconto una storia, «Battere la lastra», cioè lavorare il metallo, tratta da «La chiave a stella» di Primo Levi. Nel libro due uomini, italiani, un chimico – il protagonista – ed un operaio specializzato – Faussone – si incontrano per caso in una fabbrica all’estero, probabilmente in Russia.

Ed iniziano a parlare. Faussone ha tante avventure e non finisce mai di raccontare storie.
Una in particolare riguarda la storia di suo padre, il fabbro.

Allora, sapete già
Sigla e diamoci da fare


Eravamo entrati in un bosco. Un bosco autunnale con colori intensi. Il sottobosco era basso, pieno di foglie morte. Faussone camminava attento e raccontava di quando era bambino. Mentre io lo ascoltavo attentamente, con attenzione…

– Sì, perchè mio padre me lo diceva – continuava Faussone – voleva che finissi la scuola velocemente e che iniziassi a lavorare con lui. Voleva che io fossi come lui. E lui, mio padre. Quando aveva nove anni era già in Francia ed imparava un lavoro.

– A quel tempo facevano tutti così nella valle. Erano tutti magnini. Fabbri. Lui quel lavoro lo ha fatto fino a quando è morto. Lui lo diceva che doveva morire con il martello in mano. Pover’uomo. Ma non è detto che sia il modo più brutto di morire. Ci sono tanti che vanno in pensione, quando smettono di lavorare, iniziano a bere, gli viene un’ulcera, o iniziano a parlare da soli. Lui sarebbe stato uno di loro, ma è morto prima.

– Non ha fatto altro che battere la lastra. Ha fatto una pausa solo quando era in Germania, durante la guerra, come prigioniero. Lui batteva il rame. Non esisteva l’acciaio inossidabile. Non era di moda come ora. Facevano di tutto: vasi, pentole, tubi, distillatori… Al mio paese, dove sono nato durante la guerra, tutti battevano la lastra

– Magnino significa stagnino uno che fa le pentole e poi ci passa lo stagno, e ci sono varie famiglie che si chiamano Magnino ancora adesso e magari non sanno piú perché sai che il rame dopo essere battuto diventa duro…

Sapevo che cos’è il rame, anche se non ho mai battuto la lastra. Il rame è come noi: si ingrossa e diventa duro, ostile. quando l’ho detto a Faussone ci siamo sentiti un po’ parenti. Gli ho detto che gli avrei forse saputo spiegare il meccanismo del fenomeno chimico, ma lui mi ha risposto che non gli importava. Comunque, Faussone mi ha ricordato che il rame duro poi deve essere cotto di nuovo. Qualche minuto a 800 gradi, nel forno. È questo il lavoro del magnino: scaldare e battere, battere e scaldare.

Queste cose piú o meno le sapevo; invece, non sapevo nulla dello stagno. Lo ascoltavo allora con attenzione, come uno studente con il maestro.

Faussone ha iniziato: – Una volta che la pentola è fatta, il lavoro non è ancora finito. Bisogna mettere lo stagno dentro, altrimenti la pentola rilascia, perde, il rame. E alla lunga si ammala chi usa la pentola e la sua famiglia. E del resto non è detto che se mio padre è morto che aveva solo cinquantasette anni, non sia perché il rame ce l’aveva già che girava nel sangue.

Faussone andava avanti, ma ad un certo punto della spiegazione, ha iniziato a tentennare. Non riusciva a spiegare un concetto. Non lo sapeva con precisione, e non lo sapeva perché aveva rifiutato di impararlo, insomma col padre c’era stata un po’ di ruggine, non andavano bene le cose, perché lui aveva ormai diciott’anni e ne aveva abbastanza di stare al paese a fare le pentole di rame. Voleva andare a Torino e entrare in fabbrica. Faussone ci entrò, ma per poco.

Poi Faussone ha detto: lui, mio padre, capiva che quel mestiere, fatto sempre in quella maniera e vecchio come il mondo, finiva che moriva con lui, e come io gli ho risposto che dell’acido cotto non me ne faceva niente, lui è rimasto zitto, ma si è sentito morire un poco già allora. Perché vedi, il suo lavoro gli piaceva, e adesso lo capisco perché adesso a me piace il mio.

Mentre ascoltavo Faussone raccontare, mille pensieri e considerazioni mi entravano in testa. Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può dare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) è la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono. C’è una parte di persone che esalta il lavoro nelle cerimonie ufficiali, dove dicono che un complimento è meglio di un aumento di paga. Però esiste anche una retorica opposta, non cinica ma profondamente stupida, che tende a denigrarlo, che non lo apprezza, come se chi sa lavorare fosse per definizione un servo. E invece, chi lavorare non sa, o sa male, o non vuole, fosse per ciò stesso un uomo libero. È malinconicamente vero che molti lavori non sono amabili, ma è nocivo iniziare un lavoro con odio e pregiudizio.

chi lo fa, si condanna per la vita a odiare non solo il lavoro, ma se stesso e il mondo. Si può e si deve combattere perché il frutto del lavoro rimanga nelle mani di chi lo fa, e perché il lavoro stesso non sia una pena, ma l’amore o l’odio del singolo lavoratore. E non dipenda dalle strutture produttive dove fa, dove svolge questo lavoro.

Faussone aveva intuito quello che pensavo. Forse mi leggeva la mente ed ha ripreso: – Lo sai qual è il mio nome? Tino, come tanti altri: ma il mio Tino vuol dire Libertino. Mio padre quando mi ha registrato in comune mi voleva chiamare Libero, ma il sindaco era fascista. Era un amico di mio padre, ma quel nome, Libero, sarebbe stato un problema. Era troppo diverso per i fascisti. Il sindaco non aveva problemi con mio padre, ma altri fascisti avrebbero potuto dare problemi al sindaco. Mio padre allora pensò a Libertino. Pover’uomo: lui pensava fosse lo stesso che Libero. come quando uno si chiama Giovanni e lo chiamano Giovannino. Ma intanto Libertino io sono rimasto e tutti quelli che leggono il mio passaporto ridono. Anche se, ho lavorato un po’ in tutto il mondo un po’ libertino lo sono poi diventato sul serio. Mio padre voleva chiamarmi Libero perché voleva che io fossi libero. Non aveva idee politiche, lui di politica aveva solo l’idea di non fare la guerra perché aveva provato;  per lui libero voleva dire di non lavorare sotto padrone. Magari dodici ore al giorno in un’officina tutta nera col ghiaccio d’inverno come la sua, magari da emigrante. Ma non sotto padrone, non nella fabbrica, non a fare tutta la vita gli stessi gesti, fino che uno non è piú buono a fare altro e lo mandano in pensione e si siede sulle panchine. Ecco perché era contrario che io andassi in fabbrica. Voleva che continuassi il suo lavoro. Che un po’ l’ho imparato, quando mi forzava ad andare con lui dopo la scuola da ragazzo. Senza quello che mi ha insegnato, sarei ancora in fabbrica a Torino.

Continuavamo nel bosco. Il cielo al tramonto era sereno. quasi ad un tratto, ci siamo accorti di un rumore lontano e triste. Si ripeteva ad intervalli quasi regolari, e non si capiva da quale direzione provenisse, ma poi abbiamo scoperto, altissimi sopra le nostre teste, gli stormi ordinati di uccelli come se piangessero perchè dovevano migrare, partire.

Poi Faussone ha ripreso la sua storia: «… ma ha fatto a tempo a vedermi venire via dalla fabbrica e iniziare questa professione. Credo che sia stato contento: non me l’ha mai detto perché non era uno che parlava tanto, ma me l’ha fatto capire in diverse maniere, e quando ha visto che ogni tanto partivo in viaggio certamente ha avuto invidia, ma un’invidia di una persona che vuole bene. A lui un lavoro come il mio gli sarebbe piaciuto, perché almeno non ti porta via il risultato: il prodotto resta lí, è tuo, non te lo può togliere nessuno. Quando venivano i clienti a prendere le pentole e gli altri oggetti di rame, lui gli faceva come una carezza e si vedeva che gli dispiaceva; se non erano troppo lontani, ogni tanto prendeva la bicicletta e andava a guardarli, con la scusa di vedere se tutto andava bene. Anche viaggiare gli sarebbe piaciuto, a mio padre. Lui aveva viaggiato poco, in Francia da ragazzo, poi la Russia, da soldato. Che esperienze.

– Una volta mi disse che l’anno più bello fu il 1943. I tedeschi lo avevano catturato come prigioniero e portato in Germania. Aveva iniziato con il piccone, poi era passato a meccanico, ed alla fine a guidare treni, durante la guerra. Era facile guidare i treni, ma difficile sapere che cosa fare, durante la guerra.

– Quando la guerra finì, ritornò a lavorare come prima, a battere la lastra nella sua officina. Gli avevano offerto dei posti di lavoro buoni in fabbrica. Erano lavori nuovi, non molto diversi dal suo. Mia madre gli diceva tutti i giorni di accettare il lavoro in fabbrica, perché lo stipendio era buono. ma lui non ci pensava neanche: era meglio stare senza padrone. «E’ meglio essere testa d’anguilla che coda di storione»: perché era uno di quelli che vanno avanti coi proverbi. Ma ormai le pentole di rame e stagno non le voleva piú nessuno perché c’erano in bottega quelle d’alluminio che costavano di meno, e poi sono venute quelle d’acciaio inossidabile.

– Soldi ne entravano pochi, ma lui di cambiare non se la sentiva. Si era messo a bere un po’ di piú. Non lavorava piú tanto, perché le ordinazioni erano poche, e a tempo perso faceva delle altre cose con una forma nuova, cosí per il piacere di farle, per esempio dei vasi per i fiori, ma non li vendeva, li metteva da una parte oppure li regalava.

– Mia madre era brava, molto di chiesa, ma non trattava tanto bene mio padre. Non si rendeva conto che quell’uomo, finito il suo lavoro, per lui era finito tutto. Non voleva che il mondo cambiasse, e siccome invece il mondo cambia, e adesso cambia in fretta, lui non voleva. Cosí diventava malinconico e non aveva piú voglia di niente. Un giorno non è venuto a cena. e mia madre l’ha trovato morto in officina: col martello in mano, l’aveva sempre detto.


Avete ascoltato il racconto «batter la lastra» dal romanzo Lla chiave a stella» di Primo Levi. Spero vi sia piaciuto ed interessato.
Vi ricordo che trovate la trascrizione gratuita sul mio patreon
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Su patreon trovate anche la storia originale, per i più avanzati
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Vi auguro un buon primo maggio

Come sempre vi ricordo che

Non è la cultura che fa le persone
Ma le persone che fanno la cultura
Quindi, facciamo cultura insieme


A presto ragazzi

Ciao

Fabbro: blacksmith
Martello: hammer
Pentola: pot
Stagno: tin
Averne abbastanza: Have enough
Piccone: pick

Sources

La Chiave a stella – Primo Levi


DISCLAIMER

As you noticed, the name of the podcast has been changed, as the target of the project. There are too many “Learn Italian with…” about tiny details about the Italian language. However, they do not speak about Italian culture, the many focus of the new “Italian stories with Davide”