In this BONUS, we read the first two chapters of “La felicità del Lupo”, the new novel of Paolo Cognetti.
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Ciao ragazzi
E bentornati su Italian stories with Davide
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In questa lettura, vi leggo i primi due capitoli del nuovo romanzo di Paolo Cognetti, uscito alcune settimane fa. La felicità del lupo parla di Fausto, un 40enne che scappa in montagna per trovare una nuova vita, lontano dalla città. Parla di Silvia, giovane che in montagna cerca sè stessa. Ci sono altri personaggi, anche il lupo. Tutti cercano la felicità.
Che cosa aspettiamo, allora?
Sigla e leggiamo…
Capitolo 1
Un ristorantino
Fausto aveva quarantanni quando si rifugiò, cercò rifugio, a Fontana Fredda, cercando un posto da cui ricominciare. Conosceva quelle montagne fin da ragazzino, da quando era un ragazzino, e la sua infelicità quando ne stava lontano era stata tra le cause, o forse la causa dei problemi con la donna che era quasi diventata sua moglie.
Dopo la separazione aveva affittato, he rented, un alloggio, una casa, lassù e trascorso un settembre, un ottobre e un novembre a scarpinare per i sentieri, a fare trekking, raccogliere legna nei boschi e cenare davanti alla stufa, the wood stove, assaporando, sentendo, il sale della libertà e masticando l’amaro, the bitterness, della solitudine.
Scriveva, anche, o perlomeno ci provava: nel corso dell’autunno vide le mandrie, the herds, lasciare gli alpeggi, the mountain pasture, gli aghi dei larici, the larch, pine needles, ingiallire e cadere, finché con le prime nevi, per quanto avesse ridotto all’osso le sue necessità, finirono anche i soldi che aveva da parte.
L’inverno gli presentava il conto, the bill, di un anno difficile. Qualcuno a cui chiedere un lavoro a Milano lo aveva, ma si trattava di scendere, attaccarsi al telefono, risolvere con la sua ex gli aspetti lasciati in sospeso, e una sera, poco prima di rassegnarsi a farlo, di accettarlo, gli capitò di confidarsi, di parlare, davanti a un bicchiere di vino, nell’unico luogo di ritrovo, the meeting place, di Fontana Fredda.
Da dietro il suo bancone Babette lo capì perfettamente. Era arrivata anche lei dalla città, ne conservava l’accento e una certa eleganza, ma chissà in quale epoca e per quali vie. A un certo punto aveva rilevato un ristorante in un posto che, nelle mezze stagioni, in primavera e autunno, non offriva altra clientela che muratori e allevatori di bestiame, contadini, e l’aveva battezzato, lei aveva chiamato il ristorante, II pranzo di Babette, come il racconto di Karen Blixen. Da allora tutti la chiamavano così, nessuno ricordava il suo nome di prima.
Fausto ci aveva fatto amicizia per aver letto Karen Blixen e intuito un sottinteso, un’allusione: la Babette del racconto era una rivoluzionaria che, dopo essere fallita la Comune di Parigi, l’autogoverno di Parigi nel 1871, era finita a fare la cuoca in un paesello di bifolchi, di persone di campagna con poca educazione, in Norvegia. Quest’altra Babette non serviva brodi di tartaruga, turtle soup, ma tendeva, aveva una tendenza, ad adottare gli orfani e a cercare soluzioni pratiche a problemi esistenziali. Dopo aver ascoltato i suoi, i problemi di Fausto, gli chiese: Sai cucinare?
Così a Natale lui era ancora lì, a maneggiare pentoloni e padelle, pots and saucepans, tra i fumi della cucina. C’era anche una pista da sci, a ski slope, a Fontana Fredda, ogni estate si parlava di chiuderla e ogni inverno in qualche modo riapriva.
Con un cartello stradale, giù al bivio, all’incrocio, e un po’ di neve artificiale sparata, messa, in mezzo ai pascoli attirava famigliole di sciatori e per tre mesi l’anno trasformava i montanari, gli abitanti delle montagne, in macchinisti di seggiovia, chairlift, addetti all’innevamento, a mettere la neve, gattisti, che guidavano i gatti delle nevi, e soccorritori, rescuers, in un travestimento, a disguise, collettivo di cui adesso faceva parte anche lui.
L’altra cuoca era una veterana, aveva una lunga esperienza, che in pochi giorni gli insegnò a sgrassare, togliere il grasso da, chili di salsiccia, interrompere la cottura della pasta con l’acqua fredda, allungare l’olio nella friggitrice, e che girare, mescolare, la polenta, the cornmeal mush, per ore era fatica sprecata, inutile, bastava lasciarla lì a fuoco basso, on low heat, e si cuoceva da sola.
A Fausto stare in cucina piaceva, ma qualcos’altro cominciò ad attrarre la sua attenzione. Aveva una finestrella da cui passava i piatti in sala e osservava Silvia, la nuova cameriera, ritirare le ordinazioni, gli ordini, e servire ai tavoli.
Chissà dove l’aveva pescata Babette. Non era il tipo di ragazza che ti aspettavi di trovare tra i montanari: giovane, allegra, aria da giramondo, globetrotter, a vederla portare polenta e salsicce sembrava un segno dei tempi pure lei come le fioriture, the blossoming, fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi.
Tra Natale e l’Epifania lavorarono senza sosta, senza fermarsi, dodici ore al giorno per sette giorni la settimana, e si corteggiarono, si seducevano, così, lei appendendogli bigliettini sulla lavagna, the board, di sughero, lui suonando il campanello, the bell, quando i piatti erano pronti. Si prendevano in giro, they made fun of each other: Due paste in bianco, plain, dello chef, diceva lei. La pasta in bianco è fuori menu, diceva lui.
I piatti e gli sciatori andavano e venivano a una tale velocità che Fausto era lì a grattare, a pulire, le pentole quando si accorgeva, capiva, che fuori era buio. Allora per un momento si fermava, gli tornavano in mente le montagne: si chiedeva se in alto avesse tirato vento o nevicato e come fosse stata la luce lassù, sui grandi pianori, i plateau, assolati, al sole, oltre la quota, l’altitudine, dei boschi, e se i laghi ora assomigliassero a lastre di ghiaccio, sheets of ice, o a morbide conche, soft dips, innevate. A 1800 metri era uno strano inizio d’inverno in cui pioveva e nevicava, e di mattina la pioggia scioglieva, melted, il nevischio della notte.
Poi una sera, passate le feste, dopo le festività, con i pavimenti umidi, the damp floor, e le stoviglie, i piatti, asciugate, dried, e impilate, si slacciò, si tolse, il grembiule, the apron, da cuoco e andò di là per un bicchiere, per bere. Il bar a quell’ora entrava in una tranquilla, pacifica autogestione, self–management.
Babette metteva un po’ di musica, lasciava una bottiglia di grappa sul banco e i gattisti venivano a cercar compagnia tra un giro di pista e l’altro, mentre livellavano le buche, the holes, e i dossi prodotti dagli sciatori, riportavano in alto la neve che era stata spinta in basso, la fresavano, la lavoravano, dov’era ghiacciata perché tornasse granulosa, su e giù sui loro cingolati per lunghe ore buie.
Silvia aveva una stanzetta sopra la cucina: verso le undici, dal bar Fausto la vide scendere con un asciugamano, a towel, in testa, trascinare una sedia accanto alla stufa e mettersi lì al caldo a leggere un librone. Lo colpì il pensiero che fosse appena uscita dalla doccia.
Intanto ascoltava le chiacchiere di questo gattista che chiamavano Santorso, come il santo e la distilleria. Santorso gli stava raccontando della caccia, the hunting, ai galli di montagna, black grouse, e della neve. Della neve che quell’anno tardava, non arrivava, della neve così preziosa per proteggere le tane degli animali, the lairs, dal gelo, dal freddo, dei problemi che dava alle pernici e ai forcelli, agli uccelli, un inverno senza neve, e a Fausto piaceva imparare tante cose che non sapeva, ma non ci pensava nemmeno a perdere di vista la sua cameriera.
A un certo punto Silvia si tolse l’asciugamano dalla testa e cominciò a pettinarsi, to comb, i capelli con le dita, avvicinandoli alla stufa. Erano neri, lunghi e lisci, smooth, come quelli di una donna asiatica, e c’era molta intimità nel modo in cui li pettinava. Finché, fino a quando, non si sentì osservata, alzò gli occhi dal libro e, con le dita nei capelli, gli sorrise. A Fausto la grappa bruciò nella gola, burnt his throat, come un ragazzo alle prime bevute.
Poco dopo i gattisti tornarono al lavoro e Babette salutò quei due, ricordò all’uno o all’altra di infornare, di mettere nel forno, le brioche la mattina presto, portò via i sacchi dell’immondizia e se ne andò a casa. Era contenta di lasciare lì le chiavi, i liquori, la musica, e che il suo ristorante favorisse le amicizie anche mentre lei non c’era, una piccola Comune di Parigi tra i ghiacci, tra il freddo, della Norvegia.
Capitolo 2.
Gli amanti
Quella sera fu lei a portarselo sù in camera, fosse stato per lui sarebbe arrivato prima il disgelo, the thaw. Nella stanzetta di Silvia il solo calore era quello che saliva dalla cucina, cosi il rito dello spogliarsi, di togliere i vestiti, risultò un po’ sbrigativo, di fretta, ma per Fausto entrare nudo, naked, in un letto, vicino a una ragazza altrettanto nuda e tremante, ebbe qualcosa di commovente e meraviglioso.
Era stato per dieci anni con la stessa donna, e per sei mesi con l’insipida compagnia di sé. Fu come avere finalmente un ospite, a guest, esplorare quel corpo, that body: scoprì che sotto era un corpo forte, solido, cosce robuste, sturdy thighs, una pelle liscia e tesa; sopra era spigoloso di ossa, poco seno e tutto costole, clavicole, collarbones, gomiti, e poi zigomi e denti con cui entrò in collisione quando il sesso di Silvia divenne un po’ violento.
Non ricordava più la pazienza che ci vuole per capire i gusti di un’altra persona e farle capire i propri. In compenso, in cambio, aveva le mani piene di ustioni, burn, tagli, cuts, abrasioni da detersivo, buchi della maledetta affettatrice, e trovò una certa corrispondenza nell’accarezzarla con quelle, alla fine.
Che buon profumo che hai, disse. Sai di stufa.
Tu sai di grappa.
Ti dà fastidio?
No, mi piace. Grappa e resina. Che cos’è?
Sono le pigne, the pine cones, che mettiamo nella grappa.
Mettete le pigne nella grappa?
Si, di pino cembro. Si raccolgono in luglio.
Allora sai di Luglio.
Fausto si rallegrò, era contento, per quell’idea, era il suo mese preferito. I boschi folti, densi, e ombrosi, l’odore del fieno, dell’erba tagliata, nei campi, i torrenti gorgoglianti e l’ultima neve su in alto, oltre le pietraie: le diede un bacio di luglio su quella bella clavicola che sporgeva, che usciva.
Mi piacciono le tue ossa, your bones.
Sono contenta. È da ventisette anni che me le porto dietro.
Ventisette? Hanno viaggiato parecchio.
Qualche giro lo abbiamo fatto, si.
Sentiamo: dov’erano le tue ossa, vediamo un po’, a diciannove anni.
A diciannove ero a Bologna, studiavo arte.
Sei un’artista?
No. Almeno questo l’ho capito. Di non essere un’artista, voglio dire. Ero più brava a far festa.
A Bologna, lo credo bene. Hai fame?
Un po’.
Vado a prendere qualcosa?
Si ma solo se fai veloce, ho già freddo.
Volo.
Fausto scese in cucina, cercò nei frigoriferi, passò davanti alla finestrella sul retro, dietro, e vide che i cannoni sparavano neve lungo la pista, the ski slope. Ogni cannone aveva un faro, una luce, che lo illuminava, così il pendio, the slope, sopra Fontana Fredda era tutto punteggiato da questi fuochi d’artificio, fireworks, getti d’acqua nebulizzata che ghiacciavano a contatto con l’aria.
Pensò a Santorso che nel buio della notte spianava, leveled, i mucchi di neve artificiale. Tornò in camera con pane, formaggio, pàté d’olive, s’infilò sotto le coperte e subito Silvia gli si strinse addosso, aveva i piedi gelati, ghiacciati.
Lui disse: Proviamo ancora. Silvia a ventidue anni.
A ventidue lavoravo in libreria.
A Bologna?
No, a Trento. Ho un’amica di lì, Lilli. Dopo Bologna se n’era tornata a casa per aprire un posto suo, a me i libri sono sempre piaciuti e con l’università ormai avevo chiuso. Quando mi ha invitata non ci ho pensato due volte.
Cosi hai fatto la libraia.
Sì, finché è durata. Però è stato un bel periodo, sai? È li che ho scoperto la montagna. Dolomiti di Brenta.
Fausto tagliò una fetta di pane, ci spalmò sopra il pàté d’olive e aggiunse un pezzo di toma, di formaggio. Si chiese come doveva essere, scoprire la montagna. Avvicinò il boccone, l’assaggio, alle labbra di lei ma si fermò a mezz’aria.
Allora dimmi, cosa ci fai qui sotto il Monte Rosa?
Sto cercando un rifugio, a shelter.
Anche tu?
Mi piacerebbe lavorare in un rifugio sul ghiacciaio, on the glacier. Per l’estate, dico. Tu ne conosci?
Si, qualcuno si.
Posso avere quel formaggio?
Fausto le porse, le diede, la fetta di pane e toma, Silvia aprì la bocca e l’addentò, lo morse. Lui respirò dentro i suoi capelli.
Un rifugio sul ghiacciaio, disse.
Secondo te lo trovo?
Perché no. Si può provare.
La smetti di annusarmi? Can you stop smelling me?
Sai di Gennaio.
Silvia rise, rideva. E di cosa sa gennaio?
Di cosa sapeva gennaio? Fumo, smoke, di stufa. Prati secchi, dry lawns, e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracolo.
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Oggi ho letto solo i primi due capitoli del libro di Cognetti, per motivi di copyright. Ma, se volete leggere il libro, vi lascio alcuni link in descrizione per comprarlo.
Noi ci vediamo presto e allora…
Non è la cultura che fa le persone
Ma le persone che fanno la cultura
Quindi, facciamo cultura insieme
Alla prossima, ragazzi
Ciao!
Vocabulary
Affittare: to rent Stufa: wood stove Amaro: bitterness Mandria: herd Alpeggio: mountain pasture Ago: needle Conto: bill, check Luogo di ritrovo: meeting place Bifolco: lout, uneducated Pentolone: pot Padella: saucepan Pista da sci: ski slope Seggiovia: chairlift Soccorritore: rescuer Travestimento: disguise Giramondo: globetrotter Fioritura: blossoming Lavagna: whiteboard, blackboard Campanello: bell Prendere in giro: make fun of In bianco: plain (food) Lastra di ghiaccio: sheet of ice Conca: dip Pavimento: floor Umido: damp | Asciugato: dried Grembiule: apron Autogestione: self–management Buca: hole Asciugamano: towel Caccia: hunting Tana (di animali): lair Pettinarsi: to comb Liscio: smooth Disgelo: thaw Nudo: naked Ospite: guest Corpo: body Cosce: thighs Clavicola: collarbone Ustione: burn Taglio: cut Pigna: pine cone Ossa: bones fuochi d’artificio: fireworks rifugio: shelter Fumo: smoke Prato: lawn Secco: dry, dried |
Sources
Paolo Cognetti racconta “La felicità del lupo”
La felicità del lupo (book)
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