On this 27th January, the International Holocaust Remembrance Day, we read a short story by Primo Levi.
It is not a story set in Auschwitz, but it is a story about how much important is to remember and how we can sabotage our own memories to feel safe.
A lesson from the past, always true.
Download the full transcript (PDF) or read it here
Dal 2005, il 27 gennaio di ogni anno si celebra il Giorno della Memoria, la giornata per ricordare le vittime dell’Olocausto, lo stesso giorno della liberazione di Auschwitz.
E oggi leggiamo insieme una storia di Primo Levi
Ciao ragazzi
E bentornati su Italian stories with Davide
Il podcast che vi parla in italiano di storie, lingua e cultura
Il racconto adattato che vi voglio leggere, Vanadio, non è collocato nel Lager, ma molti anni dopo, nel 1967, quando Levi lavora come chimico in un’azienda che produce vernici. Ma, a un certo punto, ritorna un nome, una persona dal passato, da Auschwitz.
Sigla e leggiamo
Una vernice, paint, è una sostanza instabile per definizione: infatti, a un certo punto della sua carriera, da liquida deve diventare solida. È necessario che questo avvenga, succeda, al momento e nel luogo giusto. Il caso opposto può essere sgradevole o drammatico: può avvenire che una vernice solidifichi (noi diciamo brutalmente «parta») durante il soggiorno a magazzino, in the warehouse, e allora la merce, il prodotto, va buttata; […] o invece, che la vernice non solidifichi affatto, per niente, neppure dopo l’applicazione, dopo l’uso, e allora ci si fa ridere dietro, perché una vernice che non «asciuga» è come un fucile che non spara, a rifle that does not shoot. Al processo di solidificazione prende parte in molti casi l’ossigeno dell’aria.
[…]
Nella nostra azienda di vernici avevamo importato una partita di resina per vernici, una appunto di quelle resine che solidificano a temperatura ordinaria per semplice esposizione all’atmosfera, all’aria, ed eravamo preoccupati.
Controllata da sola, la resina essiccava, asciugava, regolarmente, ma con un certo (insostituibile) tipo di nerofumo, carbonblack, la capacità di essiccare si attenuava, si riduceva, fino a sparire.
In casi come questi, prima di formulare accuse bisogna andare cauti. Il fornitore, the supplier, era la W., grande e rispettabile industria tedesca, una delle parti in cui, dopo la guerra mondiale, gli Alleati avevano diviso la potente IG-Farben.
Ma non c’era modo di evitare la controversia: le altre importazioni di resina si comportavano bene con quella stessa di nerofumo. La resina era di un tipo speciale, che solo la W. produceva, e noi avevamo un contratto, e dovevamo assolutamente continuare a fornire, to supply, senza perdere scadenze, deadline.
Vi riassumo un po’ questa parte. Levi scrive una lettera di protesta alla W. e riceve una lettera in cui l’azienda parla di soluzioni ovvie che Levi e i suoi colleghi avevano già provato, ma senza risultati positivi. Levi scrive di nuovo per chiedere un nuovo ordine di resina e chiede ai tecnici della W. di provare il prodotto prima di spedire.
Ma insieme alla conferma dell’ordine, arriva una seconda lettera, del Doktor L. Müller che parlava di un additivo, il naftenato di vanadio, che avrebbe risolto il loro problema con la vernice. Ma riprendiamo a leggere…
Müller. C’era un Müller in una mia vita precedente, ma Müller è un nome comunissimo in Germania. Perché continuare a pensarci? Eppure, rileggendo le due lettere con frasi lunghissime, piene di tecnicismi, non riuscivo a eliminare un dubbio. Ma via, i Müller in Germania saranno duecentomila, lascia andare e pensa alla vernice da correggere.
…e poi, ad un tratto, mi ritornò sott’occhio una particolarità dell’ultima lettera che non avevo considerato: non era un errore di battuta, a typo, era ripetuto due volte, stava proprio scritto «naptenat», non «naphthenat», con la lettera H, come avrebbe dovuto. Ora, degli incontri fatti in quel mondo ormai remoto io conservo memorie di una precisione patologica: ebbene, anche quell’altro Müller, in un non dimenticato laboratorio pieno di freddo, di speranza e di paura, diceva «beta-Naptylamin» anziché «beta-Naphthylamin».
I russi erano vicini, due o tre volte al giorno venivano gli aerei alleati sopra la fabbrica di Buna: non c’era un vetro intero, mancavano l’acqua, il vapore, l’energia elettrica; ma l’ordine era di incominciare a produrre gomma, rubber, Buna, e i tedeschi non discutono gli ordini.
Io stavo in un laboratorio con altri due prigionieri specialisti. Lavorare era tanto impossibile quanto inutile: il nostro tempo se ne andava quasi per intero nello smontare gli apparecchi ad ogni allarme aereo e nel rimontarli quando l’allarme finiva.
Ma appunto, gli ordini non si discutono, ed a volte qualche ispettore si faceva largo fino a noi attraverso le macerie, the ruins, e la neve per essere sicuri che il lavoro del laboratorio procedesse secondo gli ordini. A volte veniva un SS, altre volte un vecchio soldatino, altre ancora un civile. Il civile che compariva più spesso era chiamato Doktor Müller.
Era un uomo alto e corpulento, sui quarant’anni, dall’aspetto piuttosto rozzo che raffinato; con me aveva parlato soltanto tre volte, e tutte e tre con una timidezza rara in quel luogo, come se si vergognasse di qualche cosa.
La prima volta, solo di questioni di lavoro (della «naptilamina», appunto); la seconda volta mi aveva chiesto perché avevo la barba così lunga, al che io avevo risposto che nessuno di noi aveva un rasoio, e che la barba ci veniva tagliata tutti i lunedì; la terza volta mi aveva dato un biglietto, mi autorizzava ad essere raso anche il giovedì e ad avere un paio nuovo di scarpe.
Mi aveva chiesto, dandomi del «Lei»: «Perché ha l’aria così inquieta, restless?» Io, che a quel tempo pensavo in tedesco, avevo concluso fra me: costui non si rende conto, non capisce cosa sta succedendo.
[…]
Flash-forward
Mi aveva precipitato in una eccitazione violenta. Ritrovarmi, da uomo a uomo, a fare i conti con uno degli «altri» era stato il mio desiderio più vivo e permanente del dopo-Lager. Era stato soddisfatto solo in parte dalle lettere dei miei lettori tedeschi: non mi accontentavano, quelle oneste e generiche dichiarazioni di gente che probabilmente non era implicata con Auschwitz, se non sentimentalmente. L’incontro che io aspettavo, con tanta intensità da sognarlo (in tedesco) di notte, era un incontro con uno di quelli di Auschwitz, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardati negli occhi, come se noi non avessimo avuto occhi.
Non per fare vendetta: non sono un Conte di Montecristo. Solo per ristabilire le misure, e per dire «dunque?»
[11.11]
Se questo Müller era il mio Müller, non era il nemico perfetto, perché in qualche modo, forse solo per un momento, aveva avuto pietà, o anche solo un po’ di solidarietà professionale. Forse ancora meno: forse non gli piaceva che quello strano ibrido di collega, che ero io, frequentasse un laboratorio senza il decoro, la rispettabilità, che il laboratorio richiede; ma gli altri intorno a lui non avevano sentito neppure questo. Non era l’antagonista perfetto: ma, come sappiamo, la perfezione è delle situazioni che si raccontano, non di quelle che si vivono.
Mi misi in contatto col rappresentante della W., con cui ero abbastanza in confidenza, e chiesi informazioni sul dottor Müller: quanti anni aveva? quale aspetto? dove era stato durante la guerra? La risposta non tardò molto: gli anni e l’aspetto corrispondevano, l’uomo aveva lavorato prima a Schkopau, poi alla fabbrica di Buna, presso Auschwitz.
Ottenni il suo indirizzo, e gli mandai una copia della edizione tedesca di Se questo è un uomo, con una lettera in cui gli chiedevo se era veramente lui il Müller di Auschwitz, e se ricordava «i tre uomini del laboratorio»; bene, io ero uno dei tre, oltre ad essere il cliente preoccupato per la resina che non asciugava.
[…]
Ormai erano passati quasi due mesi: la risposta non sarebbe più arrivata. Peccato.
Arrivò datata 2 marzo 1967. Era una lettera di apertura, breve e riservata. Sì, il Müller di Buna era proprio lui. Aveva letto il mio libro, riconosciuto con emozione persone e luoghi; era contento di sapermi sopravvissuto; mi chiedeva notizie degli altri due «uomini del laboratorio».
Aggiungeva di aver riletto, con l’occasione, le sue annotazioni su quel periodo: me le avrebbe commentate volentieri in un incontro personale, «utile sia a me, sia a Lei, e necessario ai fini del superamento, andare oltre, quel terribile passato».
Dichiarava infine che, fra tutti i prigionieri che aveva incontrato ad Auschwitz, ero io quello che gli aveva fatto l’impressione più forte e duratura, ma questa poteva bene essere una lusinga, flattery: dal tono della lettera, e in specie da quella frase sul «superamento», sembrava che l’uomo aspettasse qualcosa da me.
Adesso toccava a me rispondere, e mi sentivo imbarazzato. Ecco: l’impresa era riuscita; era davanti a me. Era ancora assai sfuocato, blur, ma era chiaro che voleva da me qualcosa come un’assoluzione, perché lui aveva un passato da superare e io no.
Gli scrissi che i due del laboratorio erano morti, non sapevo dove né come. Di me, l’essenziale lo conosceva dal libro, e dalla corrispondenza aziendale sul vanadio.
Avevo io molte domande da fargli: troppe, e troppo pesanti per lui e per me. Perché Auschwitz? Perché i bambini in gas? Ma sentivo che non era ancora il momento di superare, andare oltre, certi limiti, e gli chiesi soltanto se accettava i giudizi, impliciti ed espliciti, del mio libro. Se riteneva che l’azienda IG-Farben avesse assunto spontaneamente la mano d’opera schiava, slave workers. Se conosceva allora gli «impianti» di Auschwitz, che uccidevano diecimila vite al giorno a sette chilometri dalla fabbrica per la gomma Buna. Infine, poiché lui citava le sue «annotazioni, i suoi appunti, su quel periodo», me ne avrebbe mandata una copia?
Dell’«incontro» non parlai, perché ne avevo paura. […] non mi sentivo capace di rappresentare i morti di Auschwitz, e neppure mi pareva sensato vedere in Müller il rappresentante dei carnefici, oppressors. Mi conosco: mi interessa più come uomo che come avversario, lo sto a sentire e rischio di credergli. […] Mi stava bene continuare per lettera.
Müller mi scrisse aziendalmente che i cinquanta chili erano stati spediti, e che la W. confidava in una composizione amichevole eccetera. Quasi nello stesso momento, mi arrivò a casa la lettera che attendevo: ma non era come la attendevo.
Non era una lettera modello: a questo punto, se questa storia fosse inventata, avrei potuto introdurre solo due tipi di lettera; una lettera umile, calda, cristiana, di tedesco redento, redeemed; o una superba, glaciale, di nazista ostinato, stubborn. Ora questa storia non è inventata, e la realtà è sempre piú complessa dell’invenzione: meno pettinata, più ruvida, rough.
La lettera era lunga otto pagine, e conteneva una fotografia. Il viso era quel viso: invecchiato, lo risentivo alto sopra di me a pronunciare quelle parole di compassione distratta e momentanea, «perché ha l’aria così inquieta?»
Attribuiva i fatti di Auschwitz all’Uomo, senza differenziare; […] Raccontava la sua storia: «aveva seguito inizialmente il generale entusiasmo per il regime di Hitler», si era iscritto in una lega studentesca nazista, che poco dopo era stata incorporata d’ufficio nelle SA; aveva ottenuto di esserne congedato, to be discharged, e commentava che «anche questo era dunque possibile».
Alla guerra, era stato nell’antiaerea, e soltanto allora, davanti alle città distrutte, aveva provato «vergogna», shame, per la guerra. Nel maggio del ’44 aveva potuto (come me!) usare la sua qualità di chimico, ed era stato inviato alla fabbrica di Schkopau della IG-Farben, di cui la fabbrica di Auschwitz era una copia.
[…] Era stato trasferito ad Auschwitz solo nel novembre 1944: il nome di Auschwitz, a quel tempo, non aveva alcun significato, né per lui, né per i suoi conoscenti; tuttavia, al suo arrivo, aveva avuto un breve incontro di presentazione col direttore tecnico e questi lo aveva avvertito che «agli ebrei di Buna dovevano essere assegnati solo i lavori più umili, e la compassione non era tollerata».
[20.26]
[…]
Era lui, Müller, il responsabile dell’organizzazione del laboratorio di Buna: affermava di essere stato lui stesso a scegliere noi tre specialisti, e me in specie; secondo questa notizia, improbabile ma non impossibile, sarei dunque stato debitore a lui della mia sopravvivenza.
Con me, affermava di aver avuto un rapporto quasi di amicizia fra pari; di aver conversato con me di problemi scientifici, e di aver meditato, in questa circostanza, su quali «preziosi valori umani venissero distrutti da altri uomini per pura brutalità».
Non solo io non ricordavo alcuna conversazione del genere (e la mia memoria di quel periodo, come ho detto, è ottima), ma il solo pensarle, su quello sfondo, quel contesto del Lager, era del tutto fuori della realtà, e solo spiegabile con un molto ingenuo wishful thinking postumo.
Forse era una circostanza che lui raccontava a molti, e non si rendeva conto che l’unica persona al mondo che non la poteva credere ero proprio io. Forse, in buona fede, si era costruito un passato di comodo, confortevole. Non ricordava i due dettagli della barba e delle scarpe, ma ne ricordava altri equivalenti, e a mio parere plausibili.
[…]
Alla mia domanda sulla IG-Farben rispondeva che sì, aveva assunto prigionieri, ma solo per proteggerli: addirittura, formulava la (pazzesca!) opinione che l’intera fabbrica di Buna, otto chilometri quadrati di impianti, fosse stata costruita con l’intento di «proteggere gli ebrei e contribuire a farli sopravvivere», e che l’ordine di non aver compassione per loro fosse un mascheramento, a cover-up.
Nessuna accusa alla IG-Farben: il mio uomo era tuttora dipendente della W., che ne era parte. Durante il suo periodo ad Auschwitz, lui «non era mai venuto a conoscenza di alcun elemento che sembrasse inteso all’uccisione degli ebrei». Paradossale, offensivo, ma non da escludersi: a quel tempo, secondo la maggioranza silenziosa tedesca, era tecnica comune cercare di sapere meno possibile, e quindi non fare domande. Anche lui, evidentemente, non aveva chiesto spiegazioni a nessuno, neppure a sé stesso.
[…]
Concludeva insistendo sulla necessità di un incontro, in Germania o in Italia, dove era pronto a raggiungermi quando e dove io lo volessi. Due giorni dopo in azienda arrivò una lettera della W. con la stessa data della lunga lettera privata, oltre alla stessa firma.
Era una lettera conciliante, riconoscevano il loro errore, e si dichiaravano disponibili a qualsiasi proposta. Facevano capire che l’incidente aveva messo in luce, evidenziato, la virtú del naftenato di vanadio, che d’ora in avanti sarebbe stato incorporato direttamente nella resina, a qualunque cliente.
Che fare? Il personaggio Müller era nitido, a fuoco, spotless. Né infame né eroe: rimaneva un esemplare umano tipicamente grigio.
Non lo amavo, e non desideravo vederlo, eppure provavo una certa misura di rispetto per lui. Non era un sordo né un cinico, non si era adattato, faceva i conti col passato, he was dealing with the past, e i conti non gli tornavano bene: cercava di farli tornare, magari barando, cheating, un poco. La sua condanna del nazismo era timida e perifrastica, ma non aveva cercato giustificazioni.
Cercava un colloquio: aveva una coscienza, e cercava di mantenerla quieta. Nella sua prima lettera aveva parlato di «superamento del passato», leaving the past behind: ho poi saputo che questo è uno stereotipo della Germania d’oggi, dove universalmente significa «redenzione dal nazismo». Eppure era meglio questo uso dei luoghi comuni, dei cliches, che non l’ottusità, la stupidità, degli altri tedeschi: i suoi sforzi, his efforts, di superamento erano maldestri, awkward, un po’ ridicoli, irritanti e tristi, tuttavia decorosi. E non mi aveva fatto avere un paio di scarpe?
Alla prima domenica libera iniziai, pieno di perplessità, a preparare una risposta per quanto possibile sincera, equilibrata e dignitosa. Lo ringraziavo per avermi fatto entrare nel laboratorio; mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, repentance, regret, e cioè quando smettano di essere nemici.
Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che continua nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) parlare con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo.
Quanto al giudizio specifico sul suo comportamento, che Müller implicitamente domandava, citavo discretamente due casi di suoi colleghi tedeschi che nei nostri confronti, di noi prigionieri, avevano fatto qualcosa di molto più coraggioso di quanto lui diceva. Ammettevo che non tutti nascono eroi, e che un mondo in cui tutti fossero come lui, cioè onesti ed inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale.
Nel mondo reale le persone malvage, evil, esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti e inermi, senza armi, spianano loro la strada, they pave the way; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più possibile essere inermi. Dell’incontro non parlai.
Quella sera stessa Müller mi chiamò al telefono dalla Germania. La comunicazione era disturbata, e del resto ormai non mi è più facile capire il tedesco al telefono. Mi annunciava che entro sei settimane sarebbe venuto in Italia a Finale Ligure: potevamo incontrarci? Preso alla sprovvista, Taken off-guard, risposi di sì; lo pregai di precisare la data del suo arrivo, e buttai via la bozza della lettera.
Otto giorni dopo ricevetti dalla Signora Müller l’annuncio della morte inaspettata del Dottor Lothar Müller, nel suo sessantesimo anno di età.
Se vi è piaciuto il racconto, lasciate una review positiva su Apple podcast. Link in descrizione. https://podcasts.apple.com/us/podcast/italian-stories-with-davide/id1564056523)
Cliccate su segui o follow per seguire il podcast e se volete supportare il progetto, potete fare una donazione sul sito italianstorieswithdavide.com. Anche qui, link in descrizione. Cliccate su segui o follow per seguire il podcast e se volete supportare il progetto, potete fare una donazione sul sito italianstorieswithdavide.com. Anche qui, link in descrizione (https://www.paypal.com/donate/?hosted_button_id=HJF6KQ4BY27Y2)
Come sempre
Non è la cultura che fa le persone
Ma le persone che fanno la cultura
Quindi, facciamo cultura insieme
Ci vediamo prestissimo, ragazzi
Ciao!
Vocabulary
Vernice, paint magazzino: warehouse Fucile: rifle sparare: shoot resina: resin essiccare: to dry fornire, to supply Scadenza: deadline Gomma: rubber Inquieto: restless Decoro: decency, respectability Lusinga: flattery Sfuocato: blur Carnefice: oppressor | Redento: redeemed Ostinato: stubborn Ruvido: rough Vergogna: shame Mascheramento: cover-up Dipendente: employee Nitido: spotless Fare i conti con: to deal with Barare: to cheat, trick Sforzo: effort Maldestro: awkward Pentimento: repentance, regret Malvagio: evil Spianare la strada a: to pave the way to Prendere alla sprovvista: to take sb off-guard |
Sources
Primo Levi – Il sistema periodico (book)
Commenti recenti